UN FRATE CAPPUCCINO D’ALTRI TEMPI
VISSUTO AI NOSTRI GIORNI
(2)
P. Carlo Patano da Triggiano
(05.03.1913-21.06.1994)
di Fra Francesco Monticchio
Un “santo” in Mozambico (1963 -1986)
Incrociai P. Carlo in Mozambico nel 1971, dove lui era arrivato nel 1963 all’età di 50 anni.
Tutta la sua vita missionaria, se si eccettuano alcuni mesi passati a Chinde, si è svolta prevalentemente in due sole missioni: a Morrumbala, i primi 14 anni (1964-78), e a Inhassunge, gli ultimi 8 anni (1978-86). Aveva 73 anni quando tornò definitivamente in Italia a causa di una grave malattia. Era il 1986.
… E vorrei cominciare proprio da questa data a raccontare la sua esperienza e vocazione missionaria vissuta ad alta tensione, con uno zelo instancabile, un amore forte verso coloro che lui chiamava “gli amati fratelli africani”.
P. Carlo era arrivato da qualche mese in Italia molto malato. Ero superiore regolare della Custodia di Quelimane. Per non ricordo quale motivo, anche io venni in Italia. Lo trovai a Bari, nella nostra casa di Santa Fara. Appena mi vide, mi invitò ad andare nella sua stanza per dirmi qualcosa di importante. Appena chiuse la porta della stanza, si mise in ginocchio e mi disse pressappoco queste parole: «Ti prego padre superiore, permettimi di tornare in Mozambico appena possibile. Io non posso lasciare quel popolo e quelle comunità. Anche se malato, io ancora potrò lavorare, potrò aiutarli ancora in questo momento di persecuzione, voglio continuare a vivere con loro questi anni difficili. Forse non potrò più fare grandi cose, ma posso condividere con i queridos irmaos africanos il resto del tempo che il Signore mi vorrà concedere. Se altro non potrò fare, pregherò per voi e con voi, per il popolo e col popolo e la chiesa mozambicana. Voi missionari siete pochi… Chiedi tu al P. Provinciale di concedermi l’ubbidienza di ritornare in Mozambico. Voglio morire in Mozambico, con questo popolo che io amo!»
Appena cominciò a parlare lo abbracciai e lo tirai su per sedersi, ma lui non volle. Continuò sempre in ginocchio a darmi questa santa testimonianza che mi è rimasta scritta nel cuore.
Padre Carlo non poté più tornare in Mozambico, anche se dopo qualche anno si era rimesso ragionevolmente. Per questo, credo, i superiori lo mandarono a vivere nella fraternità della parrocchia Immacolata, al centro di Bari, come confessore. Il suo era un servizio costante. Era quasi sempre nel confessionale. Passato qualche mese, la parrocchia cappuccina di via Abbrescia era un continuo via vai di persone che cercavano quasi esclusivamente P. Carlo. Cosa attraeva tanta gente? Che cosa poteva dire in confessione un frate in età avanzata, cosa lo legava per tante ore al confessionale, perché la gente accorreva a lui? Tutti interrogativi che trovano la loro soluzione nella sua dolcezza, semplicità, amabilità, cristiana saggezza, un’intensa vita spirituale e di comunione con Dio, attraverso cui passava la misericordia, il perdono, la pace e la tranquillità del cuore.
Monsignor Januário Machave Nhangube, mi aveva ricevuto nella sua diocesi nel 1992
Ma la vita gli riservava ancora una esperienza missionaria molto importante con un vescovo mozambicano. Era il vescovo della diocesi di Pemba, dove nel frattempo io mi trovavo a lavorare, monsignor Januário Machave Nhangube, che mi aveva ricevuto nella sua diocesi nel 1992, per ricostruire la storica missione dei Makonde a Nangololo, e che verso la fine del 1993 cadde in una grave forma di esaurimento. Chiesi al Provinciale dei Cappuccini di Puglia, P. Lorenzo Invidia, se poteva ospitarlo a S. Fara e prendersi cura di lui. Con molta carità e attenzione P. Lorenzo lo ricevette e si preoccupò di dargli le cure del caso.
Dom Januário, mi confidò: <chi mi ha aiutato a salvarmi dalla grave depressione
è stato il tuo santo confratello P. Carlo!>
Quando Dom Januário tornò in Mozambico, mi confidò: «Due cose mi hanno ricostruito dentro, più che le medicine, più dello psicologo, chi davvero mi ha aiutato a salvarmi dalla grave depressione è stato il tuo santo confratello P. Carlo Patano che mi ha guidato spiritualmente durante i mesi trascorsi a Bari. L’altra cosa che mi ha ridato fiducia nei fratelli è stata la vita in fraternità che ho vissuto con i frati cappuccini a S. Fara».
Il 21 aprile 1978 fu abbattuta dagli atei la croce di cemento del viale che dalla strada pubblica conduce alla chiesa
Neppure in Mozambico ho avuto mai la fortuna di vivere con P. Carlo. Abbiamo sempre vissuto in differenti missioni.
Anzi forse posso dire che prima di averlo visto di persona in Mozambico, l’avevo già incontrato sulla bocca delle persone. Ero appena arrivato in Mozambico. Non era ancora passato un mese. Non ero mai uscito dalla città di Quelimane. Mai guidato in terra mozambicana. P. Cherubino aveva la jeep in officina, ma doveva ritornare urgentemente a Morrumbala. P. Prosperino, superiore regolare, mi chiese di accompagnare il padre e ritornare lo stesso giorno.
«L’andata fu facile, ma al ritorno infilai una strada diversa e andai a finire in tutt’altra direzione, perdendomi nella foresta. Era ormai notte. Presi una buca, si spensero i fari. Andai a finire fuori pista e la corsa finì in un fossato. Mi assalirono dei brutti pensieri, mi sentivo circondato da leoni che annusavano la mia jeep. Nel silenzio più cupo della foresta e nel frastuono più sonoro delle mie paure, un coro di voci disse: “Boa noite, senhor padre Carlos!” Non riuscii a soffocare un grido disperato. “Padre non gridare, siamo noi! Abbiamo sentito il rumore della jeep. Questa è la jeep del nostro P. Carlo». (1)
Poi mi dissero che conoscevano il rumore di quella jeep ed erano venuti per soccorrere il ‘loro’ P. Carlo a cui volevano molto bene. Mi dissero ancora che lui era molto buono con loro e voleva loro molto bene. Molte volte andava da loro a pregare, a visitare i malati, e i bambini nella scuola, a celebrare la messa e a fare la catechesi. Finita la giornata, la sera dormiva nella sua <palhota>. Avendo pensato che fosse il ‘loro’ P. Carlo, non volevano che dormisse digiuno... Poi mi dissero di non preoccuparmi. Ciò che avrebbero preparato per lui, lo avrebbero fatto per me. Infine vollero sapere come mai stessi guidando quella jeep. Raccontai ogni cosa e chiesi scusa per le mie paure. Dopo qualche tempo vennero con un piatto fumante di riso, una gallina arrostita ed una coperta per coprirmi. Poi mi augurarono un buon appetito ed una buona notte in macchina, perché così faceva il ‘loro P. Carlo’, quando non dormiva nella sua <palhota>. Infine mi dissero che l’indomani mattina sarebbero venuti per mettere la jeep sulla pista e permettermi di ripartire.
Passai la notte a pensare: sono così i mozambicani? Sono così ospitali? Come mai erano così affezionati al ‘loro’ P. Carlo? Cosa faceva di così grande P. Carlo? … Lo avrei compreso in seguito! Ben si meritava tante attenzioni!
La fama del suo modo di evangelizzare con la vita dimessa e sacrificata, il suo zelo nell’apostolato fatto di silenzio, di preghiera e di solitudine erano qualcosa di molto noto a noi e a tutti i missionari della Zambézia. In macchina portava sempre con sé una sonora campanella e quando arrivava l’ora della messa o della catechesi, saliva sulla capote della sua land rover e suonava la sonora campanella per chiamare i fedeli a messa!
Voglio cominciare con una testimonianza scritta da due missionari che gli successero nella evangelizzazione della vasta area di Derre, nel distretto di Morrumbala. Nel 1976, i nostri confratelli P. Fortunato Simone e P. Fedele Bartolomeo andarono a vivere a Derre. «Quando arrivammo in questa località, - scrivevano - non conoscevamo nessuno. Ma eravamo stati preceduti per anni da un missionario che tutti conoscevano. Lo chiamavano da queste parti o santo (il santo). Era il nostro carissimo P. Carlo Patano!» (2)
Che cosa della vita e azione di P. Carlo faceva suscitare nel cuore del popolo di Derre una impressione così forte da chiamarlo o santo?
Sono andato a cercare le sue memorie scritte. Vari quaderni, in parte corrosi dal tarlo, e fogli volanti-riciclati che io stesso avevo “salvato” (così come ho fatto per quelli di tanti altri confratelli) in apposite cartelle conservate nell’archivio della Curia provinciale o in quello del Museo Etnografico Africa - Mozambico di Bari - S. Fara.
Con una metodicità certosina e quasi ossessiva e ripetitiva, sempre senza commenti, in ognuno dei suoi quaderni P. Carlo annota eventi e fatti della sua vita o della cronaca della missione. Ciò mi rivela un aspetto sconosciuto del suo temperamento, quasi freddo e semplicemente osservatore e annotatore dei fatti.
In un antico quaderno dalla copertina nera in uso in Italia negli anni cinquanta intitolato La mia missione in Mozambico 28.11.1963-11.05.1986 – P. Carlo Patano, egli annota date ed eventi della sua vita, sempre nello stesso stile secco e freddo e in un vecchio block notes dalla copertina nera e rossa intitolato Crónica: Missão de Morrumbala 1978 – P. Carlo Patano registra i fatti tragici di quell’anno, il terzo della rivoluzione marxista mozambicana.
P. Carlo si mise in gioco. Attentissimo e sempre presente in ogni riunione in cui si programmavano queste nuove linee di apostolato
In questi due quaderni le prime pagine riportano l’indice degli argomenti trattati! Degno atteggiamento di un carattere molto metodico!
Il altri due quaderni dal titolo Cronaca – Inhassunge 20.01.1982-08.04.84; 24.04.1984-12.12.85 annota fatti ed eventi di quella missione. (3)
Inoltre, in 6 quaderni rilegati, senza titolo, sempre conservati nell’archivio della Curia provinciale, annota tutto il suo percorso di studio della lingua: raccolta di vocaboli, frasi correnti tradotte dal portoghese in chisena o etchwabo, accenni di catechesi ecc..
«Vivo come la gente…
nel silenzio della mia “palhota” penso, prego, medito, studio...» (1963 –1970)
Dai suoi appunti di cronaca si può facilmente dedurre che nel suo modo di evangelizzare si possono distinguere due momenti: il primo va fino agli anni 70 del novecento; il secondo va fino alla fine della sua presenza in Mozambico.
Il primo si inserisce nella scia della evangelizzazione che si potrebbe definire pre-Concilio Vaticano 2°. Pur inserendosi in una linea di catechesi mnemonica e tutta tesa alla celebrazione dei sacramenti, non mancano nel suo agire le innovazioni e l’attenzione non solo all’apprendimento di nuove nozioni, ma specialmente la volontà di “capire l’anima e il cuore del popolo mozambicano”.
Ricorro dunque alle annotazioni di questi quaderni e, particolarmente a quello intitolato La mia missione in Mozambico per raccontare il metodo e lo stile della sua evangelizzazione che doveva essere scarna, metodica e, forse, molto ripetitiva però molto efficace per la mentalità e la cultura della gente della missione di Morrumbala.
P. Carlo in partenza per la missione
Siamo nel maggio del 1964. I frati cappuccini, primi missionari della zona, erano arrivati nel 1951, dodici anni prima dell’arrivo di P. Carlo.
Il 5 giugno 1964, scriveva: «Dopo alcuni giorni del mio arrivo nella missione di Morrumbala, ho cominciato l’insegnamento del catechismo aggirandomi nelle varie catechesi (villaggi dove era cominciata l’evangelizzazione) aiutato dai professori e ragazzi del nostro internato (collegio)che traducevano la mia istruzione religiosa in lingua chisena (lingua bantu parlata dalla gente del posto). L’affluenza e l’attenzione dei catecumeni è alquanto soddisfacente. I battesimi ai catecumeni si amministrano molto raramente e soltanto dopo prova di sufficiente conoscenza della dottrina cristiana e di vita morale».
Il 12 settembre 1964 annotava: «Col carro (la jeep) della missione di Morrumbala, guidato dal nostro autista Cristoforo Mairossi, inizio l’apostolato a Posto (leggi: nel comune di) Derre, Posto Chire e nella zona di Pinda».
Il 15 settembre dello stesso anno scriveva: «Frutto delle visite alle singole palhotas (leggi: case, abitazioni, famiglie): dopo l’esperienza di visite alle singole palhotas della nostra missione di Morrumbala, mi sembra che tale forma di apostolato missionario è il mezzo più efficace per comprendere il cuore del popolo africano e conoscere la sua anima».
Il primo aprile 1965, annotava: «Predico gli esercizi spirituali ai professori della quarta classe e interni di questa missione di Morrumbala» e il 10 marzo 1966: «Durante la quaresima predico tre volte la settimana al nostro internato di Morrumbala, maschile e femminile».
P. Carlo registra questo suo impegno di predicare gli esercizi spirituali ai professori e ai ragazzi e ragazze collegiali fino all’inizio degli anni ’70 quando lo stile dell’attività missionaria cambiò ed egli vi si associò con entusiasmo.
Da queste annotazioni che si ripetono continuamente nella sessantina di pagine del quaderno (le pagine sono numerate da lui stesso) si possono comprendere il suo stile e metodo missionario.
Intanto quella specie di zelo che lo spingeva ad agire fin dai primi giorni dal suo arrivo in missione, come se già sapesse a memoria come muoversi. Quel sentirsi ‘a casa’, anche se in una cultura, lingua e religione differenti, esprime quella sua ansia e sollecitudine apostolica che come di slancio gli fanno immediatamente superare le barriere della lingua, degli usi e costumi ancestrali, delle convinzioni vitali che distinguono un popolo da un altro popolo, una cultura da un’altra e una religione da un’altra religione.
Non che non si rendesse conto di quanto tutto ciò potesse impedire una comunicazione che andasse direttamente al cuore dell’uomo e delle sue convinzioni per innestare in esse il messaggio evangelico, ma certamente in lui agiva un’altra forte convinzione, quella della fede nel Signore Gesù che precede, accompagna e segue l’azione apostolica dell’evangelizzatore e che, per le sue misteriose vie, guida l’uomo verso la conversione del cuore e della stessa cultura.
Ma sono sicuro anche che la sua amabilità, cordialità e umiltà, la sua capacità di ascolto, il suo modo di proporre la liberazione che la fede in Cristo opera nell’uomo, non suscitava una reazione di rigetto o di opposizione alla sua azione apostolica. Tutto ciò faceva di lui un autentico frate minore che aveva ascoltato col cuore le parole di Francesco d’Assisi che nella Regola non bollata raccomanda ai suoi frati:
«I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1Pt. 2,13) e confessino di essere cristiani.
L'altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio (Gv. 3,5)» (FF, 43).
Lentamente si fece strada in lui il bisogno di comunicare direttamente la Parola nella lingua degli uomini che lui evangelizzava.
Il 14 agosto 1967 scriveva nel suo diario: «Mi reco a Inhangoma (Mutarara) per studiare la lingua Chisena». Erano passati appena 3 anni dal suo arrivo a Morrumbala.
Catechesi sotto gli alberi
Poi, quando gli fu affidato l’evangelizzazione della Zona di Derre dove la gente parla la lingua Etchwabo, chiese ed ottenne un tempo di pausa per studiare questa nuova lingua.
Così annotava sul suo diario il 26 dicembre 1970: «Mi reco a Mocuba per studiare la lingua Etchwabo che si parla a Posto Derre che appartiene alla missione di Morrumbala».
Aveva 57 anni. Lo dico per esperienza: non è facile studiare e parlare un’altra lingua Bantu alla sua età!
Ma qui bisogna guardare oltre: al suo amore per la gente, all’impegno di amore per Cristo, a una risposta entusiasta alla vocazione ricevuta, alle nuove prospettive conciliari che P. Carlo fa sue, e non ultimo, alla volontà di ferro che lo caratterizzava e a una tenace memoria, suo cavallo di battaglia, che lo aiutava a predicare a memoria le prediche e catechesi che puntualmente scriveva nei suoi quaderni!
L’apostolato umile e fervoroso di P. Carlo aveva dato i suoi buoni frutti
Appartiene a questa prima fase del modo di evangelizzare di P. Carlo, una organizzazione, da definire per lo meno eroica, del suo lavoro pastorale.
Il territorio della missione di Morrumbala si estende per 12.937 Km². A P. Carlo venne affidata una fetta molto grande del territorio e le zone più lontane dalla sede della missione: Posto Derre, Posto Chire e Pinda. P. Carlo non aveva la patente.
Come poteva fare?
Predico gli esercizi spirituali ai professori della quarta classe e interni di questa missione. Foto ricordo
Ricordo che a questo proposito ho avuto una lunga conversazione con lui quando, nel febbraio 1971, ero di ritorno da Inhangoma, dove ero andato a studiare la lingua Chisena. Arrivato in Mozambico sei mesi prima, da giovane missionario volevo sapere come si comportavano i missionari di lungo corso e… volevo anche sondare ciò che mi aspettava.
Quella mattina lui tornava da una sua lunga tournée in visita alle comunità cristiane della zona di Derre. Dopo aver scaricato la jeep si era seduto a bere un bicchiere d’acqua mi avvicinai e gli domandai da dove venisse.
Mi disse che veniva da Posto Derre dove era stato due settimane. Non avendo patente, lo aveva portato quindici giorni prima il “suo fedele autista” Cristoforo e quella mattina era andato a riprenderlo per riportarlo in missione. Durante quel periodo, come avveniva in tutte le sue tournèe, aveva visitato ogni giorno i vari villaggi dove si era fatto costruire delle palhotas. La sera dormiva in una di queste case. «Vivo come la gente, mi diceva, ma nel silenzio della mia palhota posso pregare, meditare e rivivere quanto vedo tutto il giorno nelle visite alle famiglie, ai malati, alle scuole e alle catechesi, a quanto la gente mi racconta, e cerco di riviverlo davanti al Signore. Non accetto facilmente di essere ospitato dalle famiglie portoghesi, un po’ per non separarmi dal popolo africano, ma specialmente perché non mi sarebbe possibile avere tutto il tempo necessario per prepararmi a vivere ancora una giornata di evangelizzazione».
Casa di P. Carlo a Derre
Mi si aprì uno spaccato eroico di vita missionaria. Mi sentii come sull’orlo di burrone profondo! Cosa farò io? …
Riflettendo su questo tipo di apostolato di P. Carlo, P. Cherubino Schiavone da Rutigliano scrisse: «A Derre continua l’apostolato missionario il buon P. Carlo Patano da Triggiano. Con grande zelo e assiduità visitava le scuole-cappelle, catechizzando soprattutto le persone adulte. Fondò nuove scuole-cappelle, con annessi gruppi di catecumeni adulti.
Vi ritornai il 1971 e trovai la zona di Posto Derre veramente trasformata (…) I cattolici erano più coscienti e più uniti (…) L’apostolato umile e fervoroso di P. Carlo aveva dato i suoi buoni frutti».(4)
P. Carlo: un entusiasta sostenitore
della nuova evangelizzazione (1971-1986)
Negli anni ’70 nella diocesi di Quelimane cominciò un periodo di riflessione, incontri di studio, settimane di ricerche e di comunicazione di esperienze e ricerche sul campo che venivano realizzate in molte nostre missioni come Luabo, Morrumbala e Chinde. L’evangelizzazione, cioè l’annunzio, aveva sostituito le parole “catechizzare” e “cristianizzare”. Sulla scorta del metodo missionario di S. Paolo, l’evangelizzazione e l’annunzio erano divenuti a una esperienza di vita cristiana vissuta e testimoniata da una equipe, da una fraternità che, col suo modo di credere e di stare insieme cristianamente, diffonde la fede per irradiazione.
L’altro punto di forza ci veniva dalla ‘Evangelii nuntiandi’ dove il papa Paolo VI nella parola evangelizzazione includeva l’annuncio evangelico, lo sviluppo dell’uomo e della sua comunità e l’evangelizzazione della cultura del popolo di cui l’evangelizzatore è ospite.
In questa prospettiva il soggetto evangelizzatore è la comunità, un gruppo di persone convertite dalla Parola del Signore Gesù che vive in modo nuovo nel cuore di una cultura e di un popolo, che parla la sua lingua, che cerca nel cuore della sua cultura e nella sua religione e teologia naturale, i ‘semina Verbi’ e semi di salvezza che un popolo ha scoperto lungo la sua storia, come dono di Dio all’uomo.
P. Carlo con P. Fortunato, compagno di missione
Cambia dunque la prospettiva. La piramide della catechizzazione composta dal vescovo, dal sacerdote e dal catechista viene capovolta. Vescovo, sacerdote e catechista sono in una comunità cristiana che nel cuore del suo territorio umano e sociale e culturale vive in modo nuovo, guarda l’uomo intero nei suoi bisogni spirituali, politici ed economici.
Nascono le comunità cristiane ministeriali che sostituiscono le ‘catechesi’. I vari ministeri delle comunità (animatore della comunità, catechista, animatore della parola, responsabile della famiglia, incaricato della Eucaristia, consiglio degli anziani ecc.), guardano a tutte le dimensioni e i bisogni delle persone e della stessa comunità.
Nei vari villaggi non si faceva solo <catechesi e/o scuola col professore-catechista>, ma ogni servitore della comunità si interessava di un settore della vita umana sociale e cristiana: il professore, stipendiato dallo stato, insegnava mentre gli animatori della comunità volontariamente, animavano la comunità nel campo della produzione (le cooperative) e in tutti gli altri settori della vita cristiana.
Questa aria nuova, che si respirava nella missione, coinvolse anche P. Carlo che si lasciò entusiasmare dai nuovi orizzonti che si aprivano. Si mise in gioco. Attentissimo e sempre presente in ogni riunione in cui si programmavano queste nuove linee di apostolato, parlava pochissimo, ma assorbiva ogni cosa. Il suo viso sorridente si illuminava. Sembrava che rivedesse quanto aveva vissuto e lo mettesse in confronto con quanto stava avvenendo in quegli anni. Cominciò quella che si potrebbe segnalare come la seconda fase dello stile missionario di P. Carlo.
Egli partecipava a tutti gli incontri e le settimane di studio, veri giri di boa e cambio di direzione nel modo di essere missionari e di essere Chiesa in Zambézia e Mozambico.
Nel suo quaderno annotava la sua partecipazione a tutti questi incontri.
«Chinde: 19-22.09.72. Partecipo alla settimana biblica che si tiene in Chinde. Molto vantaggiosa».
«07-11.01.74: Partecipo alla settimana di evangelizzazione tenutasi in questa missione di Morrumbala con la partecipazione del vescovo di Quelimane, il vicario generale della diocesi di Beira, molti religiosi e religiose delle nostre missioni e di altre missioni. Tutto organizzato dal superiore regolare P. Prosperino Gallipoli».
«16-18.04.74: Partecipo nella nostra casa di Quelimane alla riunione di tre giorni sulla ‘Povertà e testimonianza missionaria’. Tutti abbiamo promesso di vivere realmente la povertà, perché solo così il nostro apostolato tra gli africani sarà davvero efficace».
E così ripetitivamente appunta la sua partecipazione entusiasta e coinvolgente a tutto il movimento di rinnovamento del nuovo stile missionario e della nuova metodologia dell’evangelizzazione.
Chiesa di Morrumbala
Insomma, trovammo in P. Carlo un entusiasta sostenitore e, come facevamo noi appena arrivati in Mozambico che chiedevamo lumi a lui per essere buoni missionari, ora lo faceva lui con i più giovani confratelli che si erano lanciati in questa avventura dello Spirito Santo che soffiava forte nella c Chiesa e la preparava agli eventi tragici della persecuzione marxista che dopo poco sarebbe scoppiata in Mozambico.
P. Carlo si lanciò in questa nuova via della evangelizzazione. In tutta la missione di Morrumbala, Posto Derre e Posto Chire fomentò la crescita delle comunità ministeriali.
In una sua relazione scriveva: «Dobbiamo rendere l’uomo cosciente del suo valore di persona umana, salvarlo dal sottosviluppo (…) ispiragli fiducia nelle sue possibilità creative, fargli acquistare la piena statura di uomo in Cristo (…) introdurlo nella comunità del popolo di Dio dove, come cristiano avrà qualche motivo in più per compromettersi a sua volta come evangelizzatore (…) degli altri fratelli».
Tra il 1973 e 1974 il dolore visitò la sua vita. Fu operato due volte a Quelimane. Ogni volta però annota nel suo diario «Torno a Morrumbala guarito, ben guarito!»
Nel maggio del 1975. fu protagonista di un evento molto forte, che visse con la sua solita umiltà e semplicità disarmante. Strano a dirsi, di quest’evento non ne parla nel suo diario, forse proprio per quella sua innata umiltà e modestia che non gli permettevano di parlare di sé stesso. Ma fu qualcosa di cui si parlò in tutta la Zambézia e nel Mozambico.
Era il maggio del 1975. Era già avvenuta in Portogallo la rivoluzione dei garofani, del 25 aprile 1974. Erano già stati celebrati gli Accordi di Lusaka il 7 settembre 1974 e definito il giorno dell’indipendenza del Mozambico che sarebbe avvenuta il 25 giugno 1975.
Samora Moisés Machel, il futuro presidente della Repubblica popolare del Mozambico, fece la sua marcia trionfale da nord a sud del Mozambico. La fiamma dell’indipendenza che lo precedeva accendeva i fuochi della speranza di un mondo nuovo. I suoi rabbiosi comizi pieni di una ideologia di odio e di un mal capito marxismo-leninismo, spegnevano nel cuore della gente la gioia di essere un popolo nuovo che stava per sedersi alla mensa dei popoli liberi.
Arrivò a Morrumbala. Le solite litanie introduttive di ‘viva’ e ‘abbasso’. Il solito comizio inneggiante il Frelimo, sparlando e calunniando tutta l’attività missionaria di ogni religione e specialmente della chiesa cattolica definendola superstiziosa e subordinata al colonialismo portoghese. Anche la missione di Morrumbala fu oggetto del fuoco screditante delle sue parole.
P. Carlo chiese la parola. Col suo saio cappuccino venne invitato sul palco, cosa che Samora Moisés Machel non aveva mai concesso a nessuno.
Dobbiamo rendere l’uomo cosciente del suo valore di persona umana
Con un candore angelico e un fervore caldo e serafico, davanti agli altri mastini della rivoluzione marxista che accompagnavano il presidente, in pochi minuti raccontò come l’azione missionaria a Morrumbala aveva liberato il popolo; come aveva diffuso e difeso il progetto della indipendenza nazionale; come aveva preparato uomini e donne nella scuola secondaria della missione e come, con grande rischio di espulsione, aveva anche stabilito contatti con i guerrilheiros della Frelimo fin dall’inizio della guerra di indipendenza. E poi confessò la sua fede in Dio e nel Signore Gesù: senza di Lui ogni azione umana si sarebbe girata contro l’uomo!
Le migliaia di persone applaudirono a scroscio le parole di P. Carlo e la sua confessione di fede.
Samora Machel approfittò di quella interruzione per togliergli la parola congedandolo con qualche battuta ironica.
La missione di Morrumbala distrutta dalla guerra e invasa dalla foresta
Gi anni seguenti furono anni difficili per “o santo”. Nel 1977 dovette venire con urgenza in Italia per un altro intervento chirurgico. Coraggiosamente, nei 90 giorni consentiti per non perdere la residenza, tornò in Mozambico, mettendo da parte le esortazioni dei superiori a rimanere in Italia. Ripeteva a tutti: «La mia gente è in Mozambico, quella è la mia chiesa, quello è il mio popolo!»
Per vari motivi (malattie ed espulsioni) in quegli anni molti missionari lasciarono il Mozambico. Quando il 3 ottobre dello stesso anno ritornò a Morrumbala, rimase l’unico sacerdote della missione, in compagnia di due coraggiose suore portoghesi: suor Ermínia, infermiera nel posto di salute della missione, e suor Lúcia, factotum della missione e autista di P. Carlo. Furono tempi difficili per lui. Tenendo conto del suo temperamento docile e remissivo, soffrì molto per tirare fuori tutta la grinta necessaria per agire e reagire tempestivamente agli eventi che lo incalzavano.
Voglio raccontare con parole sue questi eventi difficili così come li riporta in una relazione del 1978:
«Dal 24 di luglio del 1975 la casa dei padri (insieme a tutta la missione) fu spontaneamente consegnata al governo che aveva annunciato la nazionalizzazione dei beni delle missioni cattoliche. Noi ci ritirammo a vivere insieme alle suore nella loro casa. Ogni giorno ci riunivamo per la santa messa che era quasi sempre commentata. Alle volte partecipavano alcune persone (…) Nel dicembre del 1977 il nuovo responsabile del ciclo (leggi: direttore della scuola secondaria della ex-missione) di Morrumbala, chiese di prendere dimora nella casa delle suore con la sua famiglia composta di 7 persone. Il 27 dicembre 1977 io e le suore ci trasferimmo nella villa di Morrumbala affittando una casa. Abbiamo lasciato la missione dopo 26 anni di apostolato intellettuale, spirituale e sociale. Però siamo contenti perché così possiamo vivere a livello del popolo africano.
Chiesa di Morrumbala, dopo la guerra civile
Le visite alle comunità cristiane non continuarono con la frequenza del passato per le restrizioni del nuovo governo. Cominciai a visitare a piedi e privatamente le famiglie. Ma non mi fu possibile continuare tali visite perché mi furono proibite dal comandante della polizia alla presenza del popolo. Però mi fu permesso di visitare le comunità cristiane oltre la domenica anche nel pomeriggio del sabato.
In altri giorni della settimana visitai senza permesso le cappelle site lontane dalle vie frequentate dal popolo.
Il 21 aprile 1978 fu abbattuta dagli atei la croce di cemento del viale che dalla strada pubblica conduce alla chiesa della missione. Noi, insieme ai cristiani, abbiamo protestato per questo atto vandalico. Il 24 poi fu abbattuta dagli atei anche la croce di legno fissata sulla chiesa. Io, le suore e il popolo protestammo pubblicamente, ma inutilmente.
Il 25 aprile manifestai tale atto vandalico al nostro vescovo, Dom Bernardo Filipe Governo, il quale scrisse subito una lettera di protesta ai colpevoli ed esortò i cristiani a mettere un’altra croce sulla chiesa. Fu tutto inutile, nonostante la disponibilità coraggiosa dei nostri cristiani.
Cappella di Derre dopo la guerra civile
In data 5 agosto 1978 ricevetti una lettera dell’amministratore (sindaco) di Morrumbala, Jeremias Langa, che proibiva assolutamente di celebrare la messa nella chiesa della ex-missione di Morrumbala e ordinava di togliere con urgenza i simboli religiosi. Il popolo protesta ancora.
Il 7 agosto mi recai a Quelimane facendo auto-stop. Nella nostra casa incontrai il nostro P. Francesco Monticchio che fece subito alcune fotocopie della lettera (...) Con P. Francesco mi recai in diocesi (...) consegnammo la lettera al Vicario generale, P. Leonardo Odorizzi (...) Il 10, con P. Leonardo, tornai a Morrumbala e avemmo un colloquio lungo e animato con l’amministratore (...) ma questi per iscritto confermò la proibizione di celebrare la messa (...) nello spazio di due mesi i cristiani dovevano lasciare la chiesa, ma potevano costruire una loro cappella fuori dal territorio del centro educativo (territorio della ormai antica missione di Morrumbala) (...)
Il giorno 11 agosto lessi al popolo la lettera dell’amministratore. Tutti i cristiani promisero di lavorare di buona lena per costruire subito la nuova cappella.
Il 18 agosto, dopo aver ritirato dalla chiesa il crocifisso, paramenti, quadri e banchi, e incoraggiato cristiani e popolo a costruire con urgenza la nuova cappella, uscimmo dalla chiesa della missione di Morrumbala alla quale restiamo uniti spiritualmente».
Con la partecipazione dei cristiani di varie comunità e del popolo abbiamo inaugurato la nuova cappella
P. Carlo continua il suo rapporto nel diario con queste parole:
«Noi missionari, per ordine del governo distrettuale abbiamo dovuto abbandonare l’edificio della chiesa della ex-missione, tuttavia non abbandoniamo il popolo. Continueremo ad animarlo e ad orientarlo.
24.09.78 - Con la partecipazione dei cristiani di varie comunità e del popolo abbiamo inaugurato la nuova cappella: grande e bella. Ho esortato tutti a frequentare, come nel passato, gli incontri settimanali nella nuova cappella per studiare il catechismo, preparare le cerimonie del Battesimo e celebrare tutte le domeniche la Parola di Dio. Nonostante le restrizioni del nuovo governo ho ammirato la fede che questo popolo ancora conserva. Ovunque il popolo ci accoglie con gioia ed ascolta la Parola di Dio con attenzione e devozione».
Trapelano da queste apparentemente “fredde” annotazioni, la sofferenza, l’afflizione, l’amarezza e il dolore del P. Carlo al quale toccò chiudere mestamente la storica missione di S. Giovanni Battista di Morrumbala. Erano passati 27 anni dalla sua fondazione!
Il 27 dicembre 1977 io e le suore ci trasferimmo nella villa di Morrumbala affittando una casa
Da Morrumbala a Inhassunge (1978-1986)
Poi ancora continua ad annotare nel suo diario: «Il 05.10.78 arrivo a Inhassunge accompagnato dal superiore della missione P. Camillo Campanella e P. Marcello Bavaro, dove sono stato trasferito. Anche i padri di Inhassunge hanno dovuto abbandonare la missione e vivono in una casa prestata loro da un benefattore».
Ma la nostalgia di Morrumbala dopo sei anni era ancora forte.
Il 14 gennaio 1984 nel quaderno “Cronaca – Inhassunge – 20.01.1982 até 8.04.84”, scrisse:
P. Carlo a Inhassunge insieme a P. Camillo, P. Francisco Chimoio e P. Leone Innamorato
«P. Carlo visita la missione di Morrumbala non ancora liberata dalla RE.NA.MO, Resistenza, Nazionale, Mozambico. Dopo la partenza per l’Italia del P. Francisco Chimoio, essendo le comunità cristiane di Morrumbala rimaste per molto tempo senza l’assistenza spirituale del sacerdote, sono stato a Morrumbala.
Per causa della continua guerra tra l’attuale governo Frelimo e la Re.na.mo, il popolo vive sempre con paura. Ogni giorno molta gente è venuta alla chiesa della Villa per ascoltare la S. Messa, l’istruzione religiosa. Ho ammirato la costanza nella fede delle comunità cristiane che ogni settimana si riuniscono nelle proprie cappelle per la celebrazione della liturgia che si svolge ordinata e devota. Ho esortato il popolo di continuare a pregare sperando che torni la pace e la serenità».
A Inhassunge P. Carlo visse il suo ultimo capitolo di vita missionaria che durò 8 anni circa, dall’ottobre 1978 al maggio del 1986.
Gli anni più difficili della storia del Mozambico e della nostra missione che ebbero il loro apice il 27 marzo 1989 con il martirio di fra Camillo Campanella, fra Francesco Bortolotti e fra Oreste Saltori e il rapimento di fra Giocondo Pagliara.
Anni duri. Vedemmo la distruzione delle nostre missioni. La dispersione di tutte di tutte le comunità. 40 anni di lavoro distrutti, cancellati.
“Santo” è stato tra noi frati che abbiamo goduto della sua preghiera fatta di silenzi e di devota celebrazione dell’Eucaristia.
Passammo giorni di angoscia quando furono carcerati ed espulsi fra Fortunato Simone e fra Fedele Bartolomeo (1976); quando fu espulso fra Prosperino Gallipoli dal Mozambico (1979); quando io stesso fui sottoposto agli arresti domiciliari (1981); quando fu sequestrato fra Francisco Chimoio a Morrumbala (1982); e infine quando furono rapiti fra Gaetano Pasqualicchio e fra Bruno Guarnieri dalla loro missione di Luabo (1985).
La guerra civile non risparmiò niente e nessuno. L’insicurezza era totale. Molte volte fummo costretti a vivere insieme nel convento di Quelimane.
P. Carlo visse tutti questi eventi nel silenzio e nella preghiera. Era il nostro punto di riferimento per la sua serenità e la sua maniera cristiana di approcciarsi a questi avvenimenti.
In tutto questo tempo così difficile, P. Carlo si dedicò con una speciale attenzione all’assistenza dell’Ordine francescano secolare, fondato a Inhassunge nel lontano 1951. Ai fratelli francescani secolari seppe dare una spinta religiosa e sociale. Sotto la sua guida l’Ordine francescano secolare divenne un centro di assistenza alle migliaia di dislocati che si erano rifugiati a Inhassunge, scappando dalle zone di guerra.
Alla sua morte il ministro provinciale scrisse, tra l’altro:
«Dal ’63 all’ ‘86 la sua ansia di bene lo portò a realizzare il suo vero sogno: essere missionario. E partì per il Mozambico. Fu la tappa più significativa della sua vita: vivendo povero tra i poveri, preferendo la capanna di paglia all’alloggio offerto dai bianchi, impegnando tutte le sue risorse per raggiungere le comunità più distanti per portare l’annuncio del Vangelo. Non si risparmiava nel sonno, continuamente assillato da quanto non era riuscito a realizzare il giorno prima. Per lui c’era sempre gente che lo attendeva perché sapeva di ricevere consolazione e solidarietà concreta».
Guidato da P. Carlo, l’Ordine francescano secolare divenne un centro di assistenza a migliaia di rifugiati
L’azione e la presenza di P. Carlo non facevano chiasso: bisognava essere attenti per notarlo e percepire quanto profondo e imbevuto di Cristo fossero il suo apostolato e la sua vita di frate minore cappuccino.
Sempre pronto ad ascoltare, sempre con un semplice sorriso, con voce dimessa diceva parole di Dio ai frati, agli animatori, alle comunità con una freschezza e innocenza sconcertante. Un uomo di Dio. Un frate cappuccino d’altri tempi.
A Derre lo chiamavano o santo (il santo) e tale è stato per tutta la sua vita, in tutti i luoghi dove ha lavorato. “Santo” è stato tra noi frati che abbiamo goduto della sua presenza, della sua amabilità, del suo sguardo buono, del suo sorriso, del suo tempo sempre impegnato in opere di bene, della sua preghiera fatta di silenzi, di parole infuocate e di devota celebrazione dell’Eucaristia.
Fra Francesco Monticchio
(1) Cfr. Dalla Parte degli ultimi: P. Prosperino in Mozambico, a cura di Enrico Luzzati,Torino 2009, pagg. 52-53.
(2) Cfr. I Cappuccini di Puglia, 40 anni di cammino in Mozambico, a cura di P. Francesco Monticchio, Bari 1991, pag. 86.
(3) Mi fa piacere ricordare che si tratta di quaderni che io avevo fatto confezionare in una tipografia mentre lavoravo con un contratto governativo nel magazzino del Ministero della educazione e cultura in Zambézia. Una vera impresa. Dopo una laboriosa trattativa tra il Ministero della difesa che possedeva tonnellate di carta ma non aveva vettovaglie per il rancio dei militari, e il Ministero della educazione che aveva tonnellate di carne e sardine in scatola che migliaia di alunni non riuscivano a smaltire, ma non avevano quaderni per scrivere, riuscii a barattare cibo in scatola con carta… E fu così che i militari potettero mangiare e i bambini avere quaderni!
(4) Cfr. «Missionari Nostri», 12 (apr.-giu. 1991), 2, pag. 4
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